Dalle sentenze del primo grado del processo Minotauro al secondo grado di giudizio ci passa ora anche il nuovo articolo 416-ter del codice penale, ridisegnato dalla legge 62/2014 sul voto di scambio, che stabilisce che perché si configuri il reato è necessario provare l’impegno della mafia a intimidire l’elettore.
Per i detrattori della nuova norma, Movimento 5 Stelle su tutti, che sull’argomento, a suo tempo (ovvero solo pochi mesi fa) ha scatenato l’inferno al Senato, in sostanza, si è trattato del solito favore a politici corrotti e mafiosi. I difensori del nuovo articolo invece, trasversalmente da destra a sinistra, plaudono invece al fatto che, come recita la legge «per punire il candidato che scende a patti con l’organizzazione criminale per farsi procacciare voti è necessario dimostrare che nell’accordo sono entrate anche le modalità di accaparramento dei consensi con l’impegno del clan, se occorre, a far ricorso alla forza intimidatrice». Insomma, in quest’ottica, un presidio di civiltà giuridica incardinata sul concetto nobile del garantismo.
E la Corte di cassazione, proprio pochi giorni fa, ha applicato il principio della legge definita con una semplificazione giornalistica “più favorevole agli imputati”, annullando la decisione di condanna di un ex politico siciliano e rinviando gli atti alla Corte d’appello per un nuovo giudizio nel quale si verifichi l’esistenza della cosiddetta “prova diabolica”.
Insomma, fatti che dimostrerebbero che ora è più difficile punire il politico che fa accordi con i clan per procacciare voti se non sulla scorta di prove decisamente più stringenti. In tema con l’argomento e tornando alle nostre latitudini, dal primo grado del Minotauro, come è noto, sono uscite, oltre a quella a dieci anni per l’ex sindaco di leinì Nevio Coral, sentenze come quella a due anni per Antonino Battaglia (con l’esclusione dell’aggravante mafiosa e con il conseguente ricorso in appello dell’ex segretario comunale contro l’accusa di voto di scambio semplice in favore del suo sindaco) e il reinvio alla procura degli atti riguardanti la posizione dell’ex sindaco Bertot, che nel processo, dal quale è stato solo sfiorato, nonostante il suo status di testimone e non di imputato, ha destato le perplessità della corte in merito ad alcune deposizioni rese in aula. Ma ora che occorrono prove più decisive per dimostrare che il politico abbia accettato di fruire nel proprio interesse della “forza di intimidazione”, caratteristica delle mafie, la norma potrebbe influenzare retroattivamente anche i procedimenti pregressi del Minotauro? Si vedrà nei prossimi mesi, con la riapertura dei vari dibattimenti in corso. Polemiche politiche a parte in un dibattito che troppo banalmente spesso divide il mondo tra garantisti e forcaioli, Davide Mattiello (Pd), componente dell’Antimafia e relatore di maggioranza alla Camera sul provvedimento, sottolinea comunque che «il legislatore ha inteso ribadire il principio che se si vuole colpire lo scambio tra il politico e il mafioso, bisognerà provare che il politico abbia avuto consapevolezza di rivolgersi all’organizzazione mafiosa».
Nel numero di domani, giovedì 11 settembre, un altro articolo che tratta anche il suddetto tema grazie all’intervista realizzata dal collega Giovanni Giacomino a don Ciotti