di Ernesto Scalco*
In occasione del ventennale dal G8 del 2001, oltre 30 organizzazioni e associazioni della società civile hanno dato vita ad un progetto finalizzato a riflettere su cosa è accaduto a Genova 20 anni fa. In particolare intendono ragionare su alcune questioni centrali: il grave, accelerato e progressivo deterioramento dei diritti umani, economici, sociali e culturali; la relazione tra l’uso della forza e delle armi da parte delle forze dell’ordine e la garanzia dell’ordine pubblico costituzionale.
Ecco stralci della sentenza di Cassazione per le violenze e i falsi nella caserma di Bolzaneto, nel luglio 2001: «(…) Trattamento dei detenuti contrario alla legge e gravemente lesivo della dignità delle persone in un clima di completo accantonamento dei principi-cardine dello Stato di diritto; vessazioni continue e diffuse in tutta la struttura 8…)». Parole indegne di un Paese democratico, che dovrebbe essere impossibile ignorare.
Ben conosciamo qual è stato il bilancio: ragazzi e ragazze italiani e stranieri hanno subìto braccia spezzate, denti spaccati, mandibole rotte. Alcune donne sono state costrette a spogliarsi, minacciate di stupro, insultate pesantemente, a gridare cose irrepetibili. Una violenza perversa, inammissibile. Le violenze, gli abusi e le umiliazioni subite dai ragazzi e dalle ragazze della scuola Diaz da parte di alcuni esponenti delle forze dell’ordine furono «atti di tortura». In quella caserma fu sospeso lo stato di diritto. La nostra democrazia ebbe una caduta verticale. La discesa in quell’abisso di arbitrio e violenze ha fatto capire quanto siano vulnerabili le garanzie costituzionali.
Il 7 aprile del 2015 la Corte di Strasburgo condannò l’Italia per i fatti di Bolzaneto durante il G8 di Genova del 2001. Ma nessuno ha chiesto conto di tanto orrore ai responsabili delle forze dell’ordine; non risultano nemmeno sospensioni o rimozioni degli agenti condannati, che dunque continuano indisturbati a lavorare nelle nostre caserme e questure (40 agenti giudicati colpevoli, quasi tutti salvati dalla prescrizione). Non è stato possibile individuare tutti gli autori poiché non esistevano codici che permettessero di indentificare gli agenti. Da tempo si discute della responsabilità degli agenti per l’uso sproporzionato della forza e dell’opportunità di introdurre un codice identificativo personale sulle divise. Già il Parlamento Europeo, nel 2012, esortava gli stati membri «a garantire che il personale di polizia porti un numero identificativo».
Su 28 Paesi membri, sono 21 gli Stati dell’Unione Europea che hanno deciso di introdurre i codici identificativi sulle divise dei singoli ufficiali della polizia, ma non l’Italia. Nel corso delle passate legislature, numerose iniziative parlamentari hanno sottolineato la necessità di rendere più agevole l’individuazione, laddove necessaria, dei singoli agenti adibiti a funzioni di ordine pubblico in occasione di manifestazioni. Proposte che non hanno avuto esito positivo.
Amnesty International è convinta che l’introduzione dei codici identificativi sarebbe non solo uno strumento di garanzia per il cittadino, ma anche e soprattutto di maggiore tutela per gli agenti che svolgono il proprio lavoro in maniera corretta. Le forze di polizia sono, teoricamente, attori chiave nella protezione dei diritti; garantiscono il corretto svolgimento delle manifestazioni pubbliche, tutelando tutti da violenze e minacce.
Perché questo ruolo sia riconosciuto e svolto nella piena fiducia di tutti, sono essenziali il rispetto dei diritti umani, la prevenzione degli abusi, il riconoscimento delle responsabilità e una trasparenza, in linea con gli standard internazionali in materia. Il codice dovrebbe essere individuale, non di reparto, perché la responsabilità penale è personale; e perché chi commette violazioni dei diritti umani deve essere individuato e sanzionato personalmente.
Amnesty International, che da anni si batte a favore del provvedimento ha realizzato la campagna “Forza polizia, mettici la faccia”. Con quel codice solo l’autorità giudiziaria, insieme al Corpo di polizia coinvolto, possono risalire all’identità dell’agente, il singolo cittadino assolutamente no. Amnesty International non è “contro” la polizia e ha fiducia nelle istituzioni che hanno il dovere di proteggere e tutelare tutte le persone. Una campagna non contro qualcuno, ma a tutela di tutti. In uno Stato dove i diritti umani siano rispettati, le forze di polizia non dovrebbero temere di essere identificate.
* responsabile locale gruppo Amnesty International e.scalco@amnestypiemontevda.it
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